Gender Gap nell'avvocatura
- by Segreteria ADGI
- 22 apr 2020
La legge è uguale per tutti, i contratti pure, ma nel corso della loro vita lavorativa le carriere, le interruzioni, le scelte fatte o subite dalle donne fanno sì che questa parità sia solo apparente. Quando si parla di Gender Pay Gap ci si riferisce alla discriminazione salariale di genere e cioè alla differenza tra la retribuzione di uomini e donne a parità di ruolo e di mansione.
Tale differenza può essere dovuta a molteplici fattori come la differenza media della retribuzione lorda oraria, il numero medio mensile delle ore retribuite, il diverso e minore tasso di occupazione femminile, i diversi settori di occupazione , il numero mensile delle ore retribuite, il numero dei lavoratori part time, il numero di donne in posizioni dirigenziali, ecc
Part-time, maternità, aspettative dal lavoro richiesti dalla donne, sostitute «naturali» di un welfare manchevole, nonchè equilibrismi vari per occuparsi di figli e famiglia sono le ragioni parziali che giustificano il divario reddituale. Infatti in Italia le donne scelgono spesso formule di lavoro part-time per poter conciliare famiglia e vita lavorativa; gli obblighi familiari riducono, quindi, in genere le possibilità di una donna di fare carriera e guadagnare di più. Il divario salariale risulta non a caso maggiore per le donne con figli.
Spesso, senza essere consapevoli delle conseguenze che ciò comporterà, cadono nel tranello della cosiddetta segregazione occupazionale: scelgono lavori più adatti allo stereotipo femminile (insegnante, parrucchiera, cassiera, segretaria, addetta alle pulizie) caratterizzati da retribuzione bassa e scarsa prospettiva di carriera, ma più compatibili con la gestione delle responsabilità familiari. Magari perché garantiscono vicinanza a casa, orari di routine, possibilità di part time o di interruzione del lavoro e assenza di trasferte. Tutto ciò che permette insomma di tenere assieme professione e famiglia.
Gli stereotipi sui ruoli di genere, secondo cui gli uomini dovrebbero essere tenuti a fare alcune cose e non altre e così le donne, sono ancora molto presenti nella società italiana. Alla base c'è la vecchia idea che una donna non è mai veramente disoccupata, al massimo non è pagata, perchè ha già così tanto da fare nella vita che il lavoro è un optional
Dai rapporti elaborati sul tema (tra questi il rapporto Censis 2018 sull’avvocatura) più del 50% degli uomini si dice molto o abbastanza d’accordo sia con l’affermazione che “per la famiglia è meglio che l’uomo si dedichi prevalentemente alle necessità economiche e la donna alla cura della casa”; sia che gli uomini non siano in grado di svolgere bene lavori domestici quanto le donne.
Sulla cura della casa e della famiglia: molti non credono sia giusto dividere in maniera equa i lavori domestici o l’assistenza al figlio ammalato fra partner, anche se entrambi lavorano a tempo pieno (più del 40% dei maschi pensa anzi che il padre sia meno capace della madre nel prendersi cura dei figli piccoli).
Nell’ambito del pubblico impiego o di contrattazione collettiva nel settore privato, a parità di livello e ore lavorate lo stipendio sarà ovviamente lo stesso; il gap qui si palesa in termini di possibilità di fare straordinari, di possibilità di carriera, di premi di produzione collegati alle ore lavorate, incentivi o altro, voci che fanno la differenza in busta paga.
Il divario retributivo di genere in Italia si collega anche alle diverse posizioni ricoperte all’interno delle aziende, in quanto nei ruoli di vertice la prevalenza maschile è ancora netta, nonostante l’evidente crescita al femminile e la legge 120/2011 in vigore dall’agosto 2012, anche nota come Legge Golfo -Mosca.
Il tutto attestato dai redditi medi dichiarati agli Enti Previdenziali sia dalle lavoratrici dipendenti, che autonome e quelli dichiarati dalle categorie professionali soggette alle Casse di previdenza, incluse, quindi, quella dell’avvocatura al femminile.
Ma vi è di più
In Italia, le donne che svolgono un lavoro retribuito sono ancora poche. I dati Istat parlano chiaro, nella fascia fra i 15 e i 64 anni lavora solo il 50,1 % delle donne, una su due (per gli uomini 68,7). Ma al Sud risultano occupate solo 33 donne su 100, 64 al Nord e 57 al Centro. La disoccupazione di genere pesa sull’indice finale e confina l’Italia in una posizione imbarazzante. Il fatto che in Italia il tasso di occupazione femminile sia più basso rispetto alla media europea fa sì che nel loro complesso le donne italiane godano di una minore autonomia finanziaria.
La minore autonomia non nasce dai contratti, ma dai comportamenti e dalle scelte individuali. Volontarie o obbligate che siano.
Le donne, invece, devono combattere di più per prendersi i posti di comando. Bisogna lavorare per intensificare le pratiche e le politiche per valorizzare le diversità all'interno degli ambienti di lavoro.
Non siamo uguali neppure davanti alla pandemia.
Le task force e tavoli per ridisegnare l'Italia di domani sono molteplici, con nomina di centinaia di esperti, e le donne sono in netta minoranza: nessuna nel Comitato Tecnico scientifico che lavora con la Protezione civile; quattro su 17 in quello di Colao, ecc. Come se le donne non fossero decisive per la ripresa della società e nelle decisioni dell'Italia che verrà.
Infatti, nei sette Paesi nei quali le donne sono arrivate al vertice sono state attivate politiche più vincenti nel combattere il virus.
Peraltro, sulle donne peseranno anche le conseguenze sociali ed economiche del dilagare del coronavirus, visto che le donne rappresentano il 70% dei lavoratori del settore sanitario e dei servizi sociali e,dunque, rischiano di più. Inoltre, il peso dei doveri familiari, già sproporzionato in tempi normali, grava su di loro così come il lavoro domestico che le vede impegnate tre volte più degli uomini. La chiusura degli asili nido per frenare la diffusione del Covid-19, pone nuove barriere che ostacolano la capacità delle donne di mantenere il loro lavoro fuori casa. In più la maggior parte delle donne lavora nell'economia informale, il che significa che il loro reddito è precario e hanno un'assicurazione sanitaria generalmente inadeguata o inesistente.
La parità di trattamento tra uomo e donna nei luoghi di lavoro, è da tempo al centro dell’azione anche di Confprofessioni, quale parte sociale del settore delle libere professioni e attore del sistema della contrattazione collettiva. Confprofessioni è, ricordiamo, la maggiore organizzazione di rappresentanza delle libere professioni in Italia a cui aderiscono ventuno sigle associative di tutti i settori professionali: Economia e Lavoro (Dottori commercialisti ed Esperti contabili, Consulenti del lavoro, Revisori contabili); Diritto e Giustizia (Avvocati, Notai); Ambiente e Territorio (Ingegneri, Architetti, Dottori Agronomi, Geologi, Tecnici); Sanità e Salute (Medici di medicina generale, Dentisti, Veterinari, Psicologi, Pediatri); V Area (Professionisti e Artisti, Archeologi, Restauratori).
Nella Regione Lazio operano circa 185 mila professionisti a fronte di 1 milione e mezzo di professionisti in Italia. Nel dettaglio del Lazio, il numero di liberi professionisti uomini, è pari a 108.581 mila, mentre il numero di professioniste donne è pari a 76.407. Il Lazio è la Regione che presenta la minore disparità in termini numerici rispetto alle altre Regioni, infatti le libere professioniste sono il 41% del totale. Il IV Rapporto sulle libere professioni in Italia a cura del nostro Osservatorio delle libere professioni ha evidenziato come le libere professioni in Italia presentino un elevato divario occupazionale di genere sulla base dell’età: nelle classi di età over 55 il gap tra uomini e donne è molto accentuato (la componente maschile pesa oltre il 75%). Nel Lazio, invece, le donne rappresentano la componente più numerosa nelle fasce più giovani, il 60% tra i 15 e i 34 anni sono libere professioniste. Il divario di genere è invece negativo, in modo più o meno intenso a seconda della professione, sulla componente reddituale. Complessivamente va evidenziato come nella regione Lazio il gender pay-gap sia significativamente rilevante: in media una professionista donna consegue un reddito che sfiora il 60% di quello di un professionista di sesso maschile.
Quanto alle donne avvocate, stando ai dati forniti dalla Cassa forense, le statistiche ci consegnano l’immagine di un’avvocatura “donna” sempre più numerosa, ma meno ricca di quella degli avvocati “uomini” .
Tale discriminazione pone le professioniste avvocate in situazioni spesso di precarietà nel corso della loro carriera, ma ancor di più dopo il pensionamento, con un divario pensionistico di genere.
Le opzioni sono molteplici: alcune donne avvocate rimandano la maternità per timore di perdere il proprio avvio professionale per la mancanza o ridotta offerta di servizi sociali destinati al sostegno delle loro famiglie; altre rinunciano alla maternità e al matrimonio; altre rinunciano alla libera professione nonostante i notevoli meriti e competenze, con il gravissimo rischio che corre l’economia che viene privata di talenti che le professioniste avvocate sono in grado di rappresentare; altre, a parità di prestazione, chiedono onorari più bassi o assumono incarichi meno redditizi, per problemi culturali di autostima femminile come se la loro opera avesse un minor valore.
Il Rapporto Censis 2018 “Percorsi e scenari dell’avvocatura italiana”, basato sull’indagine condotta dal Censis in collaborazione con l’Aiga e con la Commissione Pari Opportunità del CNF, ha evidenziato che tra il 1995 e il 2017 il numero di iscritti all’ordine degli avvocati è cresciuto poco meno di 160mila unità (con un tasso complessivo nel periodo pari al 192%), la crescita ha riguardato in misura nettamente maggiore le donne che sono aumentate di quasi 95mila unità (con un tasso complessivo del 452%) rispetto all’incremento di 64.700 uomini (con un tasso di crescita complessivo del 104%).
Ciò ha inciso sull’identità e la composizione di genere della professione, ormai equidistribuita (nel 1995 le donne rappresentavano il 25% del totale degli avvocati mentre nel 2017 costituiscono il 47,8%).
La tabella 1, elaborata dal Censis su dati Cassa Forense nel Rapporto 2018, riassume gli andamenti dei numeri d’iscritti agli albi e alla Cassa Forense tra il 1988 e il 2017 riportando anche la distinzione per genere.
Tab. 1 - Andamento del numero di avvocati iscritti agli albi tra il 1988 e il 2016, totale e per genere; tasso di crescita annuo del numero totale di iscritti e percentuali di femminilizzazione (v.a. e %)
Avvocati iscritti agli albi
Totale Uomini Donne Tasso di crescita annuo (totale) % di femminilizzazione
1988 52.600 ….. ….. …..
1989 53.027 47.459 5.568 0,81% 10,5%
1990 57.685 ….. ….. 8,78% ……
1991 62.342 ….. ….. 8,07% ……
1992 67.000 ….. ….. 7,47% ……
1993 69.764 54.363 15.401 4,13% 22,1%
1994 74.438 56.796 17.642 6,70% 23,7%
1995 83.090 62.068 21.022 11,62% 25,3%
1996 86.939 63.641 23.298 4,63% 26,8%
1997 94.289 68.265 26.024 8,45% 27,6%
1998 99.792 70.453 29.339 5,84% 29,4%
1999 109.818 75.335 34.483 10,05% 31,4%
2000 119.338 79.244 40.094 8,67% 33,6%
2001 129.071 84.283 44.788 8,16% 34,7%
2002 138.971 ….. ….. 7,67% ……
2003 148.872 ….. ….. 7,12% ……
2004 158.772 97.804 60.968 6,65% 38,4%
2005 168.453 100.881 67.572 6,10% 40,1%
2006 178.134 104.914 73.220 5,75% 41,1%
2007 186.000 107.287 78.713 4,42% 42,3%
2008 198.041 112.269 85.772 6,47% 43,3%
2009 208.000 115.705 92.295 5,03% 44,4%
2010 216.728 119.200 97.528 4,20% 45,0%
2011 221.688 123.319 98.369 2,29% 44,4%
2012 226.734 124.704 102.030 2,28% 45,0%
2013 230.435 122.182 108.253 1,63% 47,0%
2014 234.287 123.774 110.513 1,67% 47,2%
2015 237.132 125.122 112.010 1,21% 47,2%
2016 241.712 126.572 115.140 1,93% 47,6%
2017 242.796 126.815 115.991 0,45% 47,8%
Nel successivo Rapporto Censis 2019 “L'avvocato nel quadro di innovazione della professione forense”, si evidenzia che nel 2018 il 52,1% degli iscritti alla Cassa Forense è costituito da uomini, mentre le donne raggiungono la quota del 47,9% approssimandosi, quindi, alla metà del totale.
Le donne avvocato sono ricercate per risolvere problemi sulla famiglia e minori (68,5%), sulle proprietà (55,2%), o sulle esecuzioni (46,5%), contratti (52,1%). Esiste poi un numero esiguo di donne avvocato che si occupano di reati societari (2,6%) e le società in generale (12%).
Situazione di fatto che pare basarsi su convinzioni diffuse: le avvocate sono considerate più idonee a gestire contenziosi fra persone che non affari, ovvero di occuparsi di questioni familiari, contrattuali, infortunistica, proprietà e locazioni.
A parità di età e di localizzazione una avvocata ha un reddito dichiarato inferiore alla metà dell’avvocato uomo. In generale le donne hanno un reddito medio inferiore a quello degli uomini del 58%, in valori assoluti di quasi 30.000 euro, un terrificante gap salariale di genere.
Non solo, gli avvocati riescono a raggiungere un livello di reddito superiore alla media (oltre i 41.000 euro l’anno di imponibile IRPEF) a partire dalla fascia d’età compresa tra i 40 e i 45 anni, mentre le avvocate vi arrivano ben quindici anni dopo, al raggiungimento dei 55 anni.
Il citato Rapporto Censis 2019 evidenzia che utilizzando come indicatore il reddito professionale medio dichiarato ai fini Irpef per il 2017, fatto 100 il valore medio riferito al totale, il reddito di riferimento per gli uomini è del 34,2% superiore, mentre quello delle donne è inferiore di circa 40 punti percentuali.
Questo dipende in parte dal fatto che le donne, proprio per quella (asserita) attitudine alla cura e all’ascolto, scelgono o sono scelte per occuparsi di situazioni quasi sempre legate all’ambito privato, mentre l’avvocato uomo generalmente segue realtà giuridiche, istituzioni ed enti pubblici, che sono clienti con maggiori possibilità di spesa.
E' confermato, quindi, che le donne si applicano spesso a materie meno remunerative e scontano una maggiore difficoltà (imbarazzo) nel farsi pagare, nonostante il fatto di essere delle professioniste con un compito tecnico per cui è giusto percepire un compenso.
Alla parità numerica ancora oggi non corrisponde affatto una parità effettiva e rappresentativa. L’esigua presenza delle avvocate ai vertici degli organi istituzionali della classe forense rappresenta il vero vulnus che fa sì che non si possa davvero parlare, oggi, di equilibrio di genere nell’avvocatura.
Consiglio Nazionale Forense: 9 donne e 25 uomini .
Giunta dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura: 3 consigliere su 9.
Cassa Forense: 16 componenti su 80 nel Comitato Delegati, 1 unica donna nel Consiglio di Amministrazione.
La rappresentanza femminile negli Ordini è decisamente migliorata grazie all’introduzione delle quote di genere: esempio l’Ordine di Roma su 25 Consiglieri 10 sono donne.
La Legge n.247 del 2012, “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, ha stabilito l’istituzione obbligatoria dei Comitati Pari Opportunità presso gli Ordini Circondariali, e che i Consigli dell’Ordine (e il Consiglio Nazionale Forense) debbano essere costituiti con il rispetto dell’equilibrio di genere.
Il meccanismo concreto per l’applicazione del principio della pari rappresentanza è stato previsto dalla legge 12 luglio 2017, n. 113 “Disposizioni sulla elezione dei componenti dei consigli degli ordini circondariali forensi”. Esso prevede che gli elettori possano esprimere un numero di voti non superiore ai due terzi dei consiglieri da eleggere e tra i voti espressi una quota di un terzo è riservata al genere meno rappresentato. Il mancato rispetto dei criteri comporta la nullità dei voti “di troppo”, espressi per il genere più rappresentato. Lo stesso principio si applica nel caso in cui venga meno un componente: se a dimettersi dall’Ordine forense è una consigliera, deve subentrarle un’altra donna, anche se il primo dei non eletti è un uomo (il principio è stato chiarito ancor prima dell’approvazione della legge 113/2017, dal Tar Lazio, proprio con riferimento al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, che ha ricordato come l’equilibrio fra i generi sia un principio costituzionale).
I Comitati pari opportunità sono obbligatori nei Consigli degli avvocati. E all’interno dei consigli stessi deve essere rispettata nelle procedure di elezione la parità di genere: un terzo del genere meno rappresentato, che attualmente sono le donne. La legge 247/2013 (Nuova disciplina dell’ordinamento forense) regolamenta l’organizzazione e l’esercizio della professione e l’operatività degli Enti istituzionalmente preposti alla rappresentanza della professione ordinistica.
Tra le norme istituzionali spicca in particolare una nuova previsione, ripetuta «tra le righe» dei diversi articoli sulla composizione di ordini, Cnf e Collegio distrettuale di disciplina. E che recepisce «trasversalmente» nel nuovo Ordinamento forense, facendola in un certo senso propria la «legge sulle quote di genere» (legge 120/2011 in vigore dall’agosto 2012, anche nota come Legge Golfo -Mosca).
Per disposto degli artt. 25 e 28 della legge professionale risulta infatti che " presso ogni Consiglio dell’Ordine è costituito il Comitato pari opportunità degli avvocati, eletto con le modalità stabilite con regolamento approvato dal Consiglio dell’Ordine (...) i componenti del Consiglio sono eletti dagli iscritti con voto segreto in base al regolamento (...) il quale " deve prevedere in ossequio all’art. 51 Cost. che il riparto dei Consiglieri da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno 1/3 dei consiglieri eletti». La prescrizione di "garantire la rappresentanza tra i generi" nella composizione numerica dei consigli territoriali è ripetuta all’art. 34 con riferimento all’Ente ad essi sovraordinato. Sancendosi espressamente per i membri del Cnf che "le elezioni per la nomina dei componenti (...) non sono valide se non risultano presenti entrambi i generi". Lo stesso dicasi per i nuovi consigli distrettuali di disciplina. All’art. 50 si legge infatti che "il Consiglio distrettuale di disciplina è composto da membri eletti su base capitaria e democratica con il rispetto della rappresentanza di genere di cui all’art. 51 Cost. secondo il regolamento approvato dal Cnf". Si potranno esprimere fino a 16 preferenze (2/3 degli eleggibili), ma non più di 2/3 dei voti esprimibili (10) possono essere espressi nei confronti dello stesso genere. In pratica: fino a 10 preferenze si possono votare tutti avvocati maschi o tutte avvocate, le ulteriori preferenze (fino a 6) dovranno andare all’altro genere. Il rapporto 2/3 - 1/3 in sostanza non è riferito al numero di preferenze effettivamente espresse, ma solo al massimo di preferenze esprimibili. Con 10 preferenze si possono fare 10-0 o 5-5 o 0-10, o tutte le altre combinazioni possibili intermedie. Oltre le 10 preferenze opera il tetto di genere: 10-1, 10-2 e via dicendo fino a 10-6.
Come superare il divario retributivo?
Il Presidente della Confprofessioni Lazio nella " Proposta di legge n. 182 dell'11 settembre 2019: Disposizioni per la promozione della parità retributiva tra i sessi, il sostegno dell'occupazione e dell'imprenditoria femminile di qualità, nonchè per la valorizzazione delle competenze delle donne" presentata al Consiglio Regionale del Lazio rileva che " Le azioni da intraprendere devono svolgersi su piani diversi. Emerge innanzi tutto come l’introduzione del principio dell’equo compenso per le prestazioni professionali, avvenuta di recente a livello regionale per i rapporti con la PA, rappresenti una risposta fondamentale per promuovere l’eguaglianza e la parità tra lavoratrici e lavoratori. Un intervento che vada a premiare la qualità e la quantità del lavoro svolto dai professionisti, al di là di qualsiasi distinzione di genere, appare infatti il rimedio più efficace per la promozione delle pari opportunità nel nostro settore. Allargando lo sguardo non può che rilevarsi che le tutele di welfare per le lavoratrici autonome e le professioniste sono ancora molto limitate, essendo sufficiente una interruzione prolungata della attività nel caso della maternità a minare la possibilità per le donne di proseguire il proprio impegno professionale. E’ necessario, da questo punto di vista, uno sforzo che vada oltre l’introduzione di bonus per acquisto di beni e servizi per l’infanzia. Queste misure sono tendenzialmente destinate ad avere breve durata e gravano sulla finanza pubblica senza offrire alcuna certezza alle famiglie. Si tratta, piuttosto, di favorire un mutamento di prospettiva culturale, promuovendo e sostenendo gli investimenti nel welfare aziendale e valorizzando l’adozione di nuovi modelli organizzativi dell’attività".
Certamente bisogna favorire la trasparenza nelle retribuzioni, prevedere un Registro regionale dei datori di lavoro virtuosi in materia retributiva di genere; sostenere misure per favorire l'occupazione femminile stabile e di qualità o per il reinserimento sociale e lavorativo di donne vittime di violenza o delle donne con disabilità; sostenere gli organismi per la parità, l'educazione, il welfare pubblico e aziendale; valorizzare l'autoimpiego delle professioniste istituendo fondi per la concessione di agevolazioni finanziarie e promuovendo la stipulazione di protocolli d'intesa con l'Associazione Bancaria Italiana (ABI) per consentire l'accesso al credito a tassi agevolati; prevedere strumenti di supporto all'attivazione di Società tra Professioniste e le reti tra professioniste come sostegno alla propria attività in coincidenza di situazioni di difficoltà dovute a periodi di congedo di maternità o altre circostanze che richiedono un allontanamento temporaneo dallo svolgimento della professione per favorire la possibilità di riprendere in maniera efficace i propri incarichi professionali; fornire assistenza all'infanzia, sviluppare la digitalizzazione del lavoro e, soprattutto, sensibilizzare i cittadini nel promuovere la coscienza delle discriminazioni di genere.
Il problema non è solo delle donne, ma dell'intera economia e della possibilità di ripresa del Paese perchè le donne non possono essere più il pilastro del nostro sistema di welfare. Non possono più farcela. Lo dicono i numeri. Non possono sostituirsi come prima all’attività dei servizi sociali e sanitari. Non ne hanno più il tempo. Vogliono lavorare, vogliono realizzarsi su tutti i piani. Vogliono avere i figli che oggi non riescono ad avere, ma che desiderano. Vogliono anche valorizzarsi sul lavoro. E se la politica non riuscirà a capire che questa è una priorità essenziale per il rilancio del nostro Paese, si allontanerà sempre più inesorabilmente dai bisogni delle donne e del Paese.
Il graduale venir meno del deficit di rappresentanza negli organismi istituzionali sarà una vittoria di tutti e non delle sole donne.
Per questa finalità si segnala il progetto Pro Rete PA, lanciato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Pari Opportunità in collaborazione, tra gli altri, con il Consiglio Nazionale Forense al fine di promuovere la presenza femminile nei processi decisionali economici attraverso la formazione di una Banca dati, tesa a raccogliere profili professionali femminili da mettere a disposizione della Pubblica Amministrazione. L’iniziativa si colloca all’interno del Progetto Operativo di Assistenza Tecnica (POAT), finanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale – FESR, nell’ambito del PON GAT 2007/2013.
A.D.G.I., Associazione Donne Giuriste Italia (costituita nel 2008) ha le proprie radici e aderisce alla Fédération Internationale des Femmes des Carrières Juridiques, associazione sorta nel 1928 a Parigi, ad iniziativa delle prime avvocate italiane e francesi. Alla FIFCJ aderiscono associazioni di giuriste di tutto il mondo.
Obiettivo dell’ADGI, mutuato da quello della FIFCJ, è la eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne, attraverso la diffusione dei principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione e dalla Carta delle Nazioni Unite, anche con la promozione di interventi normativi, mediante attività formative e informative e di supporto giuridico alle istituzioni e noi ci batteremo su ogni fronte.
Raffaella de Camelis