Primo maggio: la difesa dei diritti
- by Segreteria ADGI
- 30 apr 2021
La festa delle lavoratrici e dei lavoratori è una ricorrenza istituita in Italia nel 1891 dopo la sua istituzione in Francia, a Parigi, nel 1889, per ricordare le proteste che, due anni prima, avevano visto protagonisti i lavoratori di Chicago che rivendicavano misure di lavoro più eque e rispettose dei più basilari diritti mani (come quello al riposo).
Il contesto storico è noto: siamo nel pieno della seconda rivoluzione industriale dove importanti cambiamenti tecnologici (l’utilizzo dell’elettricità per le macchine industriali; l’invenzione della radio, del telefono, ecc.) hanno imposto un ripensamento delle condizioni di lavoro fino ad allora basate unicamente sullo sfruttamento delle categorie sociali più vulnerabili. Sfruttamento inteso come totale assenza del rispetto dei diritti umani.
Oggi la ricorrenza è ancora molto attuale: viviamo, infatti, in un contesto storico unico caratterizzato dall’avvento delle tecnologie digitali, dalla consapevolezza e promozione dei diritti sociali e dalla presa di coscienza che la disparità di genere nel mondo del lavoro è uno degli ostacoli che impedisce lo sviluppo economico e sociale.
Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) presentato dal Governo italiano in questi giorni ed all’esame del Parlamento, si legge che tra gli obiettivi generali e prioritari (“Il terzo asse strategico”) vi è l’inclusione sociale che - promette il piano - sarà “trasversale” e quindi sarà l’obiettivo in ognuna delle misure che il Governo intende adottare.
Per quanto riguarda la politica “femminile” le premesse contenute del PNRR sono la fotografia (e quindi la presa di coscienza) di quanto il problema del divario di genere si proietti negativamente sullo sviluppo del Paese:
“…il tasso di partecipazione delle donne al mondo del lavoro è del 53,1 per cento in Italia, di molto inferiore rispetto al 67,4 per cento della media europea. Nel Paese persiste anche un ampio divario di genere nel tasso di occupazione, pari a circa 19,8 punti percentuali nel 2019.
Anche quando lavorano, le donne risultano più penalizzate rispetto agli uomini, a partire dallo stipendio percepito e dalla precarietà lavorativa. Sono meno le donne che ricoprono posizioni apicali, nel privato così come nel pubblico. A questo corrisponde una disparità salariale a svantaggio delle donne a parità di ruolo e di mansioni rispetto agli uomini. La maternità impedisce troppo spesso l’avanzamento professionale. Come sottolineato nella Relazione per paese relativa all’Italia 2020 della Commissione europea, il tasso di inattività delle donne attribuibile a responsabilità di assistenza è in continua crescita dal 2010 (35,7 per cento contro il 31,8 per cento della media UE), complice anche la mancanza di servizi di assistenza adeguati e paritari. Nonostante l’imprenditoria femminile sia discretamente diffusa in Italia, la quota di autonomi sul totale degli occupati è ampiamente superiore tra gli uomini (7,1 per cento) rispetto alle donne (3,5 per cento).
Si tratta di forme di discriminazione indiretta, a cui si aggiungono varie forme dirette, come il bullismo in ambito scolastico e il sessismo nei luoghi di lavoro. Dall’inizio della pandemia c’è stata una recrudescenza di episodi di violenza sulle donne e femminicidio…”.
Per superare questo gap il Governo parte dal presupposto che il fattore principale che determina la situazione di divario è la condizione della donna in quanto tale, in quanto madre, in quanto lavoratrice che deve “scegliere” se preferire la cura dei figli o il lavoro (testualmente: “…La Strategia e il PNRR tengono conto dell’attuale contesto demografico, in cui l’Italia è uno dei paesi con la più bassa fecondità in Europa (1,29 figli per donna contro l’1,56 della media UE), e si inseriscono nel percorso di riforma e investimento sulle politiche per promuovere la natalità avviato col Family Act. Per non mettere in condizione le donne di dover scegliere tra maternità e carriera, sono previste nel PNRR misure di potenziamento del welfare...”). E così si pensa di agevolare questo ruolo con politiche per il rilancio della natalità (“Family Act”), con la previsione di asili nido più efficienti, una scuola più presente e forme di lavoro agile per le donne.
Bene, ma non benissimo.
Non si fa alcun cenno al fatto che la cura della famiglia e dei figli deve essere una questione che interessa i “genitori” in quanto tali e non solo la “mamma che deve essere agevolata”.
Così facendo si dà per (eternamente) scontato che il padre è colui che lavora, invece la madre è colei che volendo lavorare, intende sacrificare la sua inclinazione naturale alla cura della famiglia e quindi “deve essere agevolata”.
Se non si esce da questa distorsione culturale – come molti Paesi europei ormai hanno fatto, anche su impulso europeo[1] – sarà difficile colmare un gap che, come peraltro si riporta nelle stesse premesse del PNRR, deve essere ridotto a partire dall’atteggiamento culturale.
La festa del lavoro ci deve quindi ricordare l’importanza dei diritti, l’importanza di difenderli e l’importanza della coesione sociale (doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), partendo dal presupposto che una Repubblica democratica non può che essere fondata sul lavoro e sull’impegno per la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2 Costituzione).
Buona festa del lavoro!
[1] a gennaio 2019 il Consiglio Europeo e il Parlamento dell’UE hanno raggiunto l’accordo per il cosiddetto “Work Life Balance” che permette di conciliare meglio vita privata e vita lavorativa soprattutto in riferimento ai padri; accordo al quale gli Stati membri dovrebbero adeguarsi entro 3 anni.